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DOVE SONO ORA

DOVE SONO ORA

Nella lingua

srotolata in un salmo

morsa e passata

sul palmo, nella paura

del colore che sfida alla corsa

in un sospiro che dura

e si incarna nel ringhio

della vecchia bestia

abbattuta rediviva

Nella lingua che lecca e sutura

l’abiura delle parole

nella recidiva di un errore

Se il toro daltonico confonde

Il sangue col cuore

attacca

muore

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cattedrale

Quando te ne sei andata da Milano, in una notte il vento aveva divelto gli alberi, gli alberi si erano abbattuti sulle auto, le lamiere delle macchine avevano ostruito le strade. Non era ancora agosto. La città si sarebbe svuotata alla spicciolata nei weekend successivi, a partire da questo.

È quasi agosto e continui a svegliarti alle 7. Col tuo bioritmo cocciuto troverai un compromesso, forse, pochi giorni prima di tornare. Hai sempre ostracizzato la te crepata di stanchezza che vorrebbe continuare a sognare fino alle 11 sogni in cui sfrecciano decappottabili verde oliva su strade che non esistono, l’hai esiliata da anni per una serie grigia di motivi che hanno tutti a che fare col senso del dovere e con un certo modo adulto di stare al mondo. Hai la FoMo del mattino.

È che però alle 7 di mattina in vacanza lontano dalla città non può e non deve accadere niente. Il sole è sorto da poco – non un grande elemento di novità – e le cicale hanno ripreso a frinire in un morbido ronzio collettivo a cui ti sei abituata. Dicono che quest’estate ce n’è più del solito. Vuoi sapere perché – figurati – così scopri dall’Agi che il numero di molti insetti, cicale comprese, aumenta in proporzione alle temperature, e che più fa caldo più forte cantano le cicale. Cantano solo i cicali maschi, in realtà, che con l’afa tendono rumorosamente i muscoli dell’addome per invitare le cicale femmine all’accoppiamento.

È una domenica mattina di mezza estate e sei circondata da insetti che vibrano dalla voglia di scopare.

Leggi qualche altra notizia correlata che finirà nel paniere degli argomenti buoni da estrarre la sera a cena davanti a persone che non ti interesseranno affatto, e a cui forse interesserai tu con la solita curiosa superficialità per quel tuo piccolo talento nel riuscire a entrare nelle cose, specularci e poi restituirle un po’ più succose di prima.

Guardi una cicala periodica a grandezza naturale in 3d: sembra l’incrocio tra una mosca e un bacarozzo.

Ci vuole uno sforzo di immaginazione subanimale per capire come una cicala periodica maschio possa essere sessualmente appetibile agli occhi rossi di una cicala periodica femmina, eppure ti sembra di capirlo. Di giorno si capisce solo ciò che non ha bisogno di essere capito.

Non c’è niente, di te e del mondo, che tu abbia davvero afferrato o edificato prima del buio.

Hai capito la fame, e il senso di tutto ciò che avresti fatto dopo, all’undicesimo giorno di sciopero dal cibo. Di giorno filava tutto liscio, di notte le tenaglie ti soffocavano lo stomaco e riaprivi gli occhi ogni mezz’ora. Potevi mangiare, le tenaglie ti stavano dicendo che dovevi, ma non avresti capito un cazzo.

La morte l’hai capita un giovedì di dicembre inoltrato. Erano le due, tuo padre aveva appena smesso di respirare.

Non c’è niente che tu abbia capito senza un atto lacerante, mai.

Il desiderio l’avevi incontrato qualche anno prima: una pietra angolare posata in un’oasi notturna dentro di te (che è sempre lì, dietro lo sterno) sulla quale hai edificato una cattedrale immensa. In quella dimora delle possibilità, della fantasia e del sovrumano hai eretto la miglior versione di te stessa e lasciato entrare solo quelli che avevi indicato come eletti. Quando ti sei sentita depredata dagli eletti hai sbarrato la porta, ti ci sei chiusa dentro seduta al buio a braccia incrociate come un guardiano bambino e burbero in un silenzioso atto di rivolta.

Lei l’hai capita di giorno solo quando se n’è andata, senza depredare e senza salutare. Un silenzioso atto di rivolta che ha mandato in frantumi l’atto originario con forza contraria, svelandone un nucleo ottuso e sordo. Pensavi di aver ascoltato e capito tutto, ti era sfuggito il centro.

L’avevi capita di notte, la prima volta, quell’unica volta in cui hai socchiuso l’ingresso della cattedrale. Erano le 4 e sugli lcd alle pareti andavano in loop porno anni ‘90 con un improbabile Luigi Einaudi remixato in sottofondo. Più che una cattedrale sembrava un sex club. Affondato nella similpelle sudicia del divanetto all’angolo un uomo-cicala si stava facendo fare un pompino, emettendo un mugolio cadenzato e triste. Nel buio livido di luci al neon voi stavate scopando da ore senza nemmeno sfiorarvi, mentre tutti altri intorno si toccavano senza riuscire a scopare.

Era un barlume di sacralità nel tempio del profano, la costruzione della complessa dicotomia del desiderio e del bene in mezzo a uomini che avevano smesso di desiderare.

Il vento non aveva divelto gli alberi, gli alberi non si erano abbattuti sulle auto, le lamiere non avevano ostruito le strade. Era solo vento, e tu la stupida che correva a casa.

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non come i polinesiani

900 e qualcosa anni fa i marinai polinesiani – che non sapevano di essere esploratori, prima ancora che navigatori – percorrevano lunghissime – e non sapevano nemmeno quanto fossero lunghissime – distanze in canoa, a volte morendo di sventura o stenti, altre spedendo per autostrada genetica ai propri discendenti i frutti casuali e esperienziali dei viaggi che avevano avuto la fortuna di raccontare.

Tu dici hai già una terra, è la tua, forse soffri per nutrirti ma in fondo ti sei adattato con la dignità atavica che si confà agli uomini dell’epoca: ai bisogni di base devono corrispondere soluzioni altrettanto basilari ed efficaci, è la piramide di Maslow su cui si basa la tua intera sopravvivenza anche se le piramidi in effetti non le hai mai viste, non sai proprio che esistano e comunque non potresti mai raggiungerle con un’imbarcazione senza motore (il motore verrà inventato 800 e qualcosa anni più tardi).

Dicevamo: sei un polinesiano, hai la tua piramide, che non è una piramide ma più un’ellissi dai contorni irregolari, forse un atollo impervio, forse una lingua di terra affacciata su uno specchio d’acqua abbacinante di giorno, di notte una distesa di pece infinita all’occhio umano cioè il tuo.

Non sai di essere un umano ma sai cosa l’umano che non sai di essere può: l’umano può sentire.

E all’umano la terra non basta, vuole il mare.

Allora, senza alcun tipo di strumentazione – strumentazione che conoscerai 900 anni dopo – tu, piccolo umano polinesiano, apprendi presto a stenderti (il corpo supino, i sensi spalancati) su una canoa costruita con mezzi di fortuna: tronchi divelti dalla burrasca e poi levigati in bonaccia dalle maree, pezzi di legno incastrati in modo che la gravità dell’acqua, quando entra, non li affondi (non conosci ancora il concetto di gravità, ma conosci l’azione della gravità sulle cose che tocchi). Vedi i punti luminosi sopra di te – forse sai già che sono stelle senza sapere di cosa sono fatte le stelle? meglio così – e senti l’incresparsi dell’acqua intorno, il suo diverso modularsi a seconda degli ostacoli che attraversa e supera. Quando ti spingono al largo impari presto a riconoscere la differenza delle increspature. Quella violenta, in mare aperto; la morbida, quando ti avvicini alla baia. Non ti serve leggerlo, lo senti e quindi lo sai: è la ricorsività della natura a marchiarti, e guardando i marchi sai cosa fare. Sempre. Alla fine tu o un tuo parente arrivate alle Fiji.

Campioni del mondo, senza ancora mondiali di calcio.

È sempre affascinante raccontare queste storielle di tribù lontane nel tempo che a un certo punto della storia per una combinazione di fato e incoscienza imparano a fare qualcosa che tu vorresti poter calare sulla tua vita forzando la metafora e pure la storia. A volte potresti sentirti un polinesiano, persino. E invece non lo sei: i tuoi confini sono regolari, spesso tracciati con una squadra, i bisogni che ti pungolano non sono mai primari, secoli e privilegi di distanza fanno di te un essere umano troppo umano che ha perso i sensi. Quando ti stendi su una barca ricordi il privilegio e guardi le stelle con un malcelato senso di colpa, intravedi la galassia materiale e pericolosa in cui sei immerso, scopri a 33 anni e qualcosa che le cicale smettono di cantare alle 21 mentre tu non smetti di rompere il cazzo mai – sei peggio dei grilli che fanno il controcanto ribelle e stonato alle 21:30 – confondi gli avvicinamenti per arrembaggi pirati e le increspature generate dagli atolli per burrasche da cui metterti in salvo. Scappi a riva, ma non è la riva giusta.

Ti sei sempre sentito un polinesiano superstite e scopri nel 2023 che sei solo una testa di cazzo che accoglie a bordo i pirati e si allontana a remi dagli atolli.

Rimettiti sulla canoa e continua a fissare le stelle con gli occhi feriti a morte fino a che non faranno più male e non sarà la morte.