A quel punto, un cameraman attento, con un guizzo di facile ispirazione godardiana, avrebbe staccato l’obiettivo dai parlanti, e si sarebbe soffermato su di me il tempo di un respiro rotto da un flashforward.
Fosse un fatto di cronaca da terza pagina, sarebbe il collasso di un edificio in pieno centro.
Crollata palazzina storica di quattro piani, probabile fuga di gas. Non si registrano vittime: al momento dell’incidente nessuno in casa. Dopo qualche ora i soccorritori avrebbero accertato che sì, nessuna vittima, ma no, il palazzo non era vuoto. Dentro qualcuno c’era, e adesso è all’angolo della strada, muto e incenerito, a studiare le macerie fumanti con un cerino in mano.
Guardo i detriti dal futuro, oggi, mentre in una rua di Montmartre raffiche dal sapore autunnale fanno svolazzare i tendoni delle bancarelle dei robivecchi.
Ho rimandato il bisogno di ricapitolarmi, di condividermi. Espletate le formalità adulte con quella certezza granitica che sempre mi rivendico ma che spesso sfocia nella presunzione di poter risolvere tutto, ho procrastinato la risoluzione dell’enigma di me con l’altro. Non ho appiccato io l’incendio con te, ma non ho mosso un dito per spegnere le fiamme silenziose che ne bruciavano la porta di ingresso, e poi l’atrio, e infine tutti e quattro i piani di quello che pareva il cantiere di un palazzo in costruzione. Il crimine peggiore è stare con le mani in mano.
Oggi una calma quasi artificiale mi invade. La paura del dolore, che prima avvertivo come il solito tic borghese da cui scappare a gambe levate, diventa una stringa straripante di informazioni che trova il suo punto di innesto sottocutaneo nell’incavo della mano destra (il reticolo di nervi proprio della carezza o del pugno). Ogni mio raro corteggiamento, ogni avvicinamento a un pianeta – forse una galassia, diversa dalla mia – si è sostanziato del vile effimero avvicendarsi di volti a cui ho concesso lo scettro temporaneo per regnare, in subordine, su una parte del mio impero immaginifico: la mia rete di metropoli inespugnata e inespugnabile.
Si disvela con una calma quasi artificiale ma spietata il segreto insito nella collisione tra poteri condivisi – non concedere lo scettro, ma regalare la visione sul regno. Ecco il pugno chiuso che torna carezza.
Sopra scorrono veloci montagne di nuvole – spazzate via dal vento francese – e a intervalli irregolari gettano un cono di luce diversa sulle cose: in quella velocità ci sei tu, porcellana e oppio. Sei negli occhi del vicino di tavolo che si sofferma sulla crosta della soupe à l’oignon. Nel pacchetto di sigarette vuoto e accartocciato in un rimprovero. Nella voce che chiama flebile dalle macerie. Sei nel moto centrifugo di uno sguardo scagliato altrove. Nella tua pelle diafana che cerca rifugio in cuori più grati. Nel passaggio di fuoco tra la realtà e il sogno. Sei in questo sangue maledetto che ti ha rigurgitato come un corpo estraneo dopo averti riconosciuto. Sei nella rinuncia dolorosa della carne che voleva incendiarti per guarirti dai lividi e lasciartene di nuovi, ma dolci, fatti di morsi e parole. Sei nella parola ritrovata. Negli occhi al cielo di un litigio non evitato. Nei paesaggi che cambiano. Nella rabbia che non ci sopravvive. Sei qui dentro ogni cosa, quando ogni cosa smette di essere cosa e diventa sé stessa.