030304

Sapevi dell’arrivo di marzo. Già da un po’, lo sapevi: gli squarci di sole che intiepidiscono la fronte e i polsi, scadenza dell’assicurazione il 14, la pioggia di marzo testa o croce: smette, non mette. Forse. Comunque è ostinata. È arrivato marzo: lavori. Più che lavori incastri, scrivi, ti spertichi in mediazioni buffe o pericolose, pensi battaglie, vai, dai corpo, incastri, scrivi; lavori. Ami. Paghi l’affitto.
Riempire la caffettiera è l’assist da manuale – preciso solo negli intenti, gli schizzi sovversivi finiscono sulla tavola – per poter riprendere in mano il tuo trigger preferito, il filtro della moka.

Ti sapevi fatta di carne tesa e solida, scoperta eppure ignifuga; poi hai smesso di saperti. Dicembre 2019. Era un dicembre già caldo. Hai cominciato a sentire gli angoli della pelle tirare, hai visto che la tua stessa carne tesa e solida era tappezzata di filtri, decine forse centinaia di piccoli filtri soffocavano bocca, addome, mani e faccia. Così aderenti, perdevano l’intrinseca funzione originaria di trasfusione con l’esterno fondendosi in una membrana impermeabile che ti confondeva i connotati e nulla, non un atomo di te passava perché addensato e compresso in quello spazio troppo piccolo a contenerti che è il tuo corpo.
Ti inchiodava un male bestia quando scollavi qualche toppa con violenza, ma certe operazioni se fatte con delicatezza procurano, più che dolore sul momento, cicatrici insanabili. È stato questo il vero lavoro non retribuito in solido, e ostinato, parallelo all’altro: scrivi, incastri, medi, scolli, medichi le ferite. Poi paghi l’affitto. Ami?

Una volta, quando un ingranaggio del meccanismo non girava, smettevi di immaginarti e scappavi a immaginare altrove, svalicando frontiere incappucciata come un fuggitivo. Sembravi più una bestia senza padroni che andava a morire tra semi-sconosciuti, lontano da occhi amici. Che ti credevano morta, Raffaella. Quando poi tornavi, effetto sorpresa rediviva, era difficile spiegare senza eccedere in descrizioni fantastiche che eri solo un’esule di ritorno da un breve autoesilio con una vita e un nome.

Incastri, medi, scolli, medichi e scrivi tanto degli altri. Mai di te. Per tornare a farlo, a scrivere – forma più costosa, e quindi pura, di manifestarsi – qualche mese fa hai scoperto che non bastava scollare toppe, limare, così vicine le une alle altre, la membrana che compattano. Dovevi incendiarla, proprio come facevano quei burning monk tibetani in lotta contro l’oppressore che si protestavano addosso per protestare il potere. Il tuo oppressore eri tu: ok sì, un po’ borghese.

Sapevi dell’arrivo di marzo non perché tieni il conto dei giorni o delle stagioni ma perché quella membrana, che ora coincide al millimetro con la tua pelle, torna a scaldarsi e a vibrare. L’intuito, la fantasia e il desiderio, quando tendi una mano o stringi un polso non tuo, sono tuoi. La lotta è la tua, ma hai deposto le armi contro di te. I nemici erano là fuori, tu lo sapevi, ma li hai sempre scambiati per chi, invece, era con te.

Ecco, appunto, te, ché non serviva trasporre su mappa tutte le schedature e le identificazioni della polizia raccolte negli anni per poi unire i puntini sperando – finalmente cazzo – uscisse fuori il tuo volto vero. L’abbiamo trovata, è lei.
No, la lotta è tua ma non sei tu la lotta.
Tu, al centro esatto del nucleo incandescente, sei una persona che ama e che lotta.
Chi, per cosa, resta fuori dal corpo della pagina: amato, difeso.






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