Il tassista disegna con l’indice un 25 sghembo sul cofano impolverato di una mercedes dei primi duemila. Mi esce una risata complice e un po’ idiota quando gli dico che può parlare in francese. Dopotutto 25 euro è una cifra abbordabile per la tratta, ça va. Mi sono sempre stati sul cazzo i tassisti e ai tassisti sono sempre stata sul cazzo io; ci lega un astio cortese e pacifico che vira verso l’odio reciproco quando arriva il momento di pagare. No non ce li ho i contanti diocane. Ma stavolta facciamo un’eccezione, come ti chiami?, Fernando.
Gli interni di queste berline li progettavano tutti uguali, Fernando, un coordinato di romantico rigore estetico da rivista di settore: i sedili, il volante, e il bracciolo rivestiti di pelle champagne che negli anni annerisce nei punti di appoggio – il culo sprofonda, l’impugnatura sbiadisce, il gomito usura il poggiabraccio. A 16 anni volevo una macchina così, un’ammiraglia di cinque metri capace di lanciare a centosettanta all’ora la punta del cazzo che non avevo e di contenere nel suo abitacolo la sorda deflagrazione degli impulsi borghesi di provincia.
È passata una vita. A Parigi, dopo giorni di pioggia insistente, è tornata un’estate timida e sono tornata io sospinta da una folata di bora latente che più volte ha provato ad attraversarmi incontrando la resistenza del cazzo che non avevo. Diciamoci la verità: quanto tempo violentato ma pure sprecato, Fernando. Il semaforo è ancora rosso, guarda quel rivolo di piscio che scola sulla scalinata di St. Roch come luccica al sole. Siamo quasi arrivati.
Ho riletto Camere separate. Alcune pagine si sono ispessite con l’acqua filtrata dalla cerniera dello zaino asciugandosi in rigonfiamenti interni che ne deformano lo spessore.
“Non si rendeva conto che la sofferenza lo stava arricchendo e che il suo sviluppo avveniva in direzione dell’interiorità. Avrebbe preferito fare l’amore, divertirsi, espandersi in circuiti emotivi e alleanze politiche e invece si trovava a lavorare, nella contrazione e nella compressione, al mistero della propria solitudine ignaro che, così facendo, si avvicinava alla vena più solida […] a un motivo per crescere senza essere immediatamente macellato”.
Mi tiro sù i jeans che due mesi fa non riuscivo ad abbottonare. Si è solidificato, all’altezza di quella che potrebbe essere la bocca dello stomaco, un grumo pulsante di tristezza. Ne sento la gravità, il peso preciso, quando mi stendo sul piumone del letto che occupa praticamente tutto lo spazio abitabile di questa stanza da 8 metri quadri. C’entriamo io e il letto, nell’incastro orizzontale e morbido di una geografia notturna in via di assestamento. Non sono mai triste, avere a che fare con la tristezza mi confina in un angolo scomodo di me in cui faccio fatica a rimanere senza scompormi. Oggi resto con un atto di forza. Il peso del grumo spinge sul poligrafo che sovrascrive la tavola dei miei comandamenti emotivi. Sii gentile. Lo sono sempre stata, fino a quando non lo sono stata più. Sii aperta. Sono cominciati i problemi.
Lo vedevo, Fernando, che mi guardavi di sottecchi dallo specchietto retrovisore, che avevi quello sguardo interrogativo di chi solo per mancanza di confidenza non chiede cos’è che ti fa male?
E io ti avrei risposto, proprio per mancanza di confidenza, che forse, più di tutto, mi fa male l’assenza della parola. Manco a dirlo, avresti capito.
Ogni volta che ordino uno chardonnay, in qualsiasi punto di Parigi io sia, proprio mentre accendo la sigaretta d’accompagno, compare un’apetta. So che sei tu a ronzarmi attorno, rompendo il cazzo in altre forme che assumi contro la tua volontà. (Quella di oggi però era una vespa, mi punge mentre lo scrivo, e mi sembra la miglior lezione possibile di linguaggio performativo).
L’ultima pagina di Camere separate è lo scarabocchio ragionato di speranza di un libro che comincia con la fine e alla fine si schiude con un soffio. Esce fuori, sempre e solo in filigrana per fortuna, quella caterva di maturità e di gentilezza e di amore che in Altri Libertini era invece repressa o forse solo nascosta dalla gioventù disperata e dalla lingua secca che le dava corpo.
“C’è una voracità, che hai con le persone che ti vivono intorno, che mi spaventa. E questo tanto più perché io so quanto, dentro di te, ci sia solamente un fondo di sincera bontà.”
Nella sintesi si dischiude, semplice quanto chiaro, il centro. E nel centro Tondelli ci affonda, annaspa, poi risale per riprendere ossigeno, con la visione di una lingua ritrovata che era forse solo nascosta dalla rabbia di essere.
Io sono questo libro. E tutte le domande che si porta appresso.
Ho amato il volto che ho offeso, o ho offeso solo il mio desiderio? Ho amato l’ultimo volto che incontrato e da cui mi sono difesa?
Pesa la parole: ogni milligrammo di inchiostro visivo è un significato che ingiustamente aggiunge o imperdonabilmente sottrae.
Sì, l’ho amato in quel modo in cui le anime impure e purissime nell’impurità si amano quando si sfiorano si riconoscono e poi cominciano a custodirsi. E se non le accogli in quella parte incorrotta di te che pulsa allora poi lo fai male, e male, e male ancora.
Nella catena cacofonica di significati irrisolti stano l’anfratto il cui si è annidato l’errore di sistema, l’inizio della cesura. Resuscito nello sbaglio, da lontano, lo custodisco e lo aggiusto. Ti custodisco con la me incorrotta, che non ti ha detto qualcosa che non sai, quella che non offende e non scappa da sé mai. Sei in questa zona franca di me che non conosci e in cui respiri senza rabbia.
Lo chardonnay è diventato brodo, il braccio viola. Era una vespa, non tu.