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NUE

In sovrimpressione appare
chiama subito il Numero
Unico di Emergenza

quando qualcuno scompare
per denunciare la pericolosa
tendenza a scappare

dei microscopici non-eventi
accaduti tra le 3
e le 3 e 20

Agente li ho visti: correvano
sui fili scoperti


/ Fornisca i documenti

Con la digos, cretina
le generalità non le inventi:

sono un bar di quartiere
la mattina che senti
al tg la notizia di una bomba
inesplosa
il gatto randagio
che le riposa accanto
e la disinnesca
con la zampa mutilata

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Come tremano le cose riflesse nell’acqua / ril.

Il pugno sul tavolo 
sveglia rispettive
venerabili ombre.

Hanno tutta la semantica rovesciata
due linguaggi che si incontrano
Appartengono allo stesso grido

di tante piccole
voci disperse 
in un’eco 

marzo esotico
questo prugno
carico di immotivato erotismo 

ci stringe i polsi,
sigilla i pianeti:
li altera

li allea
li scopa
e li moltiplica

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030304

Sapevi dell’arrivo di marzo. Già da un po’, lo sapevi: gli squarci di sole che intiepidiscono la fronte e i polsi, scadenza dell’assicurazione il 14, la pioggia di marzo testa o croce: smette, non mette. Forse. Comunque è ostinata. È arrivato marzo: lavori. Più che lavori incastri, scrivi, ti spertichi in mediazioni buffe o pericolose, pensi battaglie, vai, dai corpo, incastri, scrivi; lavori. Ami. Paghi l’affitto.
Riempire la caffettiera è l’assist da manuale – preciso solo negli intenti, gli schizzi sovversivi finiscono sulla tavola – per poter riprendere in mano il tuo trigger preferito, il filtro della moka.

Ti sapevi fatta di carne tesa e solida, scoperta eppure ignifuga; poi hai smesso di saperti. Dicembre 2019. Era un dicembre già caldo. Hai cominciato a sentire gli angoli della pelle tirare, hai visto che la tua stessa carne tesa e solida era tappezzata di filtri, decine forse centinaia di piccoli filtri soffocavano bocca, addome, mani e faccia. Così aderenti, perdevano l’intrinseca funzione originaria di trasfusione con l’esterno fondendosi in una membrana impermeabile che ti confondeva i connotati e nulla, non un atomo di te passava perché addensato e compresso in quello spazio troppo piccolo a contenerti che è il tuo corpo.
Ti inchiodava un male bestia quando scollavi qualche toppa con violenza, ma certe operazioni se fatte con delicatezza procurano, più che dolore sul momento, cicatrici insanabili. È stato questo il vero lavoro non retribuito in solido, e ostinato, parallelo all’altro: scrivi, incastri, medi, scolli, medichi le ferite. Poi paghi l’affitto. Ami?

Una volta, quando un ingranaggio del meccanismo non girava, smettevi di immaginarti e scappavi a immaginare altrove, svalicando frontiere incappucciata come un fuggitivo. Sembravi più una bestia senza padroni che andava a morire tra semi-sconosciuti, lontano da occhi amici. Che ti credevano morta, Raffaella. Quando poi tornavi, effetto sorpresa rediviva, era difficile spiegare senza eccedere in descrizioni fantastiche che eri solo un’esule di ritorno da un breve autoesilio con una vita e un nome.

Incastri, medi, scolli, medichi e scrivi tanto degli altri. Mai di te. Per tornare a farlo, a scrivere – forma più costosa, e quindi pura, di manifestarsi – qualche mese fa hai scoperto che non bastava scollare toppe, limare, così vicine le une alle altre, la membrana che compattano. Dovevi incendiarla, proprio come facevano quei burning monk tibetani in lotta contro l’oppressore che si protestavano addosso per protestare il potere. Il tuo oppressore eri tu: ok sì, un po’ borghese.

Sapevi dell’arrivo di marzo non perché tieni il conto dei giorni o delle stagioni ma perché quella membrana, che ora coincide al millimetro con la tua pelle, torna a scaldarsi e a vibrare. L’intuito, la fantasia e il desiderio, quando tendi una mano o stringi un polso non tuo, sono tuoi. La lotta è la tua, ma hai deposto le armi contro di te. I nemici erano là fuori, tu lo sapevi, ma li hai sempre scambiati per chi, invece, era con te.

Ecco, appunto, te, ché non serviva trasporre su mappa tutte le schedature e le identificazioni della polizia raccolte negli anni per poi unire i puntini sperando – finalmente cazzo – uscisse fuori il tuo volto vero. L’abbiamo trovata, è lei.
No, la lotta è tua ma non sei tu la lotta.
Tu, al centro esatto del nucleo incandescente, sei una persona che ama e che lotta.
Chi, per cosa, resta fuori dal corpo della pagina: amato, difeso.






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LA LOTTA PER LA DEMOCRAZIA PASSA DALLA DIFESA DI DROGATI E MISTICI


breve riflessione naïf sulle auto a noleggio in Portogallo e sui monaci tibetani in Cina

Stamattina dovevo prenotare una macchina a Lisbona. Dopo dieci minuti scarsi – mi serve da domani – di comparazione tra proposte di rental cars vari arrivo a un carrozzone ibrido con chilometraggio illimitato e copertura incidenti compresa. Prezzo totale: 13, 31 euro, più una decina per i costi accessori.

Poco più di 5 euro al giorno per noleggiare un’auto che in Italia, sempre al giorno, ne costerebbe almeno 50.

Confermo un piccolo personale pregiudizio, e cioè che tra i primi indicatori del grado di civiltà di un Paese, al netto del costo casa che ormai è piaga occidentale diffusa e virulenta, ci siano: 1) il prezzo per il noleggio di un’auto (a basse emissioni); 2) la quantità di droghe legalizzate (in questo caso tutte).

Il Portogallo ha depenalizzato possesso e consumo di tutte le sostanze stupefacenti, dalla cannabis all’eroina, 23 – ventitré – anni fa.
Nel 2001 l’1% della popolazione portoghese era dipendente da eroina, sostanza che da sola causava una media di 80 morti l’anno. Nel 2011, a dieci anni dalla riforma pionieristica sulle droghe, i morti per overdose da oppiacei sono scesi a 11.

Ventitré anni di uso combinato di regolamentazione legislativa e informazione non stigmatizzante hanno reso il Portogallo uno dei Paesi europei col più basso indice di consumo giovanile e il più basso tasso di mortalità droga-correlata.

La Storia non ci insegna quasi mai la vita ma l’interpretazione dei dati può aiutarci a comprenderla: l’esempio portoghese ci racconta che accettare e normare una realtà esistente, anziché reprimerla, nel medio periodo aiuta la salute pubblica, alleggerisce le carceri, responsabilizza e libera i cittadini.

Alle 9 e 20 una cara amica mi manda questa foto da Saigon, Vietnam.

Secondo quanto riferito da Radio Free Asia, giovedì scorso le autorità cinesi hanno arrestato, dopo aver picchiato e ferito, oltre 100 monaci che protestavano contro il progetto di una diga in una prefettura autonoma tibetana nella regione del Sichuan, a Dege, in Cina.
Dege significa letteralmente “Terra della Pietà” ed è uno dei centri più importanti della cultura tibetana; la costruzione della centrale idroelettrica annessa alla diga spazzerebbe via sei monasteri e due villaggi.


Dalle fonti, rimaste anonime per motivi di sicurezza, apprendiamo che i monaci trattenuti sarebbero stati distribuiti in istituti sparsi nella contea di Dege, costretti a portare con sé biancheria da letto e tsampa, un impasto di orzo, spezie e sale molto diffuso tra sherpa e nomadi perché comodo da preparare e facile da conservare.

La nonviolenza radicata nella resistenza dei monaci buddisti pare contraddirsi nella prassi talvolta utilizzata negli ultimi decenni (l’autocombustione dei monaci-torcia), e sembra farci dimenticare quanta forza, estetica e politica, ci sia invece nel grido di disperazione di un popolo oppresso e perseguitato.

A Saigon, l’11 giugno del ’63, il primo monaco-torcia scende da un’auto, si siede a terra nella posizione del loto e si fa versare addosso da un confratello una tanica di benzina. Thich Quang Duc brucia, in mezzo alla strada, per protestare contro l’allora presidente cattolico del Vietnam del Sud Ngo Dinh Diem che negava libertà di culto alla maggioranza buddista.

Il primo burning monk a Saigon, Vietnam del sud, 11 giugno 1963. Foto di Malcolm Browne, reporter Associated Press

In un mondo che ha progressivamente rimosso dalla vita dell’uomo Dio e Droga – strizzando un occhio o chiudendone due davanti alle sostanze eccitanti e alle divinità brutali-, la lotta per la Democrazia passa anche dalla difesa dei drogati e dei mistici.

E questa non è un’apologia di Dio o un incentivo al consumo di sostanze psicoattive, figuriamoci (soprattutto per quanto riguarda Dio).

È solo un piccolo e personale pensiero sugli archetipi umani che vivono e si concretizzano nei margini, negli spazi porosi ai bordi della società e lì affinano le forme di lotta. Questi uomini arrestati, soppressi, ammazzati. Questi fiori di loto umani che bruciano nella notte, finalmente liberi.

Questi pazzi in culo che, tramite i propri corpi scarnificati e infiammati, difendono la libertà dei popoli e il diritto alla trascendenza sono l’ultimo vero baluardo di resistenza nonviolenta alla violenza dei poteri contemporanei.

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Under the Volcano

Fossi stata un’isola, quest’anno, sarei stata all’ombra di un vulcano. Ma, scrivevano e riporto: nessun uomo è un’isola.

Tra i libri del 2023 benedico questo, pietra lavica di Marco Rossari

L’ombra del vulcano, Marco Rossari
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Brecce

A me la vita non l’hanno cambiata i libri, l’hanno cambiata le persone. Henry Michaux è stata persona che ha scritto libri di rara bellezza metamorfica.

Brecce, Henry Michaux, Adelphi
ibidem

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Scrivimi una poesia

Mi ricodifico
nelle intercapedini
di circuiti siderali

che separano
e significano.

Non si fa che scrivere
e riscrivere.

Dire
/ divelte le orbite
quando si scrive un distico:

la villania umana non ti bruci
più, ti abbracci la parola.

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Duro intelligere, morbido sentire (il peggio che ci possa capitare?) P.C.

P.,

P. di persona compressa in parola puntata e scritta con l’inchiostro simpatico.
Chissà perché accomunano l’invisibilità a occhio nudo, la scomparsa apparente, alla simpatia. Cosa c’è di simpatico nel non vedere, non percepirsi, non conoscere più.
Ci si deve ingegnare: guardare in controluce, o cambiare strumento. Per ora la chiameremo immaginazione. Nell’ultimo paio d’anni è sempre toccato agli altri immaginarmi quando non c’ero o ero altrove (diresti: forse stavolta impari); agli altri spettava in maniera controintuitiva, per sottrazione, conoscermi.

P.: una persona accorciata, per ritrosia o pudore che sia, rischia di amputare la natura del destinatario, di sfumarne l’identità reale e ricomporla in idea postuma, fantasma. Nessuno è un’idea, tutti o quasi parliamo ai fantasmi. 
Tu coi tuoi devi averci fatto di quelle discussioni chilometriche che quando ti ci ficchi dentro è perché, a costo di scarnificarti coi rovi di spine che la nascondono, vai avanti fino a che non sbatti sul corpo nudo della verità – nessuno ti ferma – e appena la trovi la baci. Non basta, devi succhiarla. Sanguina. Un’altra verità ti aspetta, più avanti, ancora strada da fare e spine da togliere. Ti pulisci la bocca col dorso della mano. 

Venti giorni fa queste vie spaccavano una città dormiente in cui gli unici a rimanere svegli erano i bar dei cinesi, capsule del tempo estivo con il compito di preservare qualche pensionato ciondolante e i figli dei ricchi (a cui i ricchi hanno dato i nomi dei luoghi in cui stipano i soldi: Ginevra, Adelaide, Sofia) a fare colazione coi coglioni girati prima di partire per Forte dei Marmi, Margherita Ligure, Cortina (quelli di villeggiatura comunque erano peggio). Attraverso una crepa di luce abbacinante guardavo quell’entusiasmo lezioso mascherato da scoglionatura che non mi ha mai appassionato: se gratti via l’entusiasmo restano solo i coglioni scartavetrati dalla noia. 

Non sono allenata alle sparizioni. Con i miei, di fantasmi, ci ho parlato per un pezzo. Mi incazzavo come una biscia calpestata perché non rispondevano. Hai la comprensione magica, Raffaella, li capisci. No, facevo le domande sbagliate, e loro – bravi, imperturbabili, lo sguardo granitico e vacuo – mai una parola. Dopo anni di silenzio e odiose reticenze ho smesso. 


P., la tua è una piccola sparizione, si direbbe di poco conto. Non posso dirlo. Posso dire della solidità dei miei atomi, del rumore che fanno quando si scindono nello scontro con gli atomi altrui – crack – dei desideri che appena si materializzano lascio mi percorrano come scariche elettriche sottocutanee o di quando per esempio io ho deciso di staccarmi la luce perché temevo il corto, il sistema non avrebbe retto e non avevo alcuna intenzione di zompare all’aria. Tutta questa intelligenza per non capire che se il sistema lo stacchi, se non arriva più corrente, smette di funzionare. Smette di funzionare R. Sparisce R., non P. 
P. non è mai arrivata.

Su di te ho riversato solo una colata di affetto acerbo e rabbioso. Era presto per ipotizzare di restare, era tardi per incontrarsi. Un legame piccolo è una catenina sottile dalle maglie esili e luccicanti impreparate a reggere gli inciampi della giornata qualunque prima, gli strappi del tempo e le esigenze reciproche poi. Crack.

Te ne sei andata come sei arrivata, prima in sordina e poi con un boato. Io avevo abdicato molto tempo prima, poco dopo il principio, perché mi sentivo come quel Prufrock di Eliot, formulato, trafitto da uno spillo che inoculava nettare nuovo nel mio universo e avevo l’universo stanco. Non ho osato turbarlo.

P., non si parla che a sé stessi. Rivolgersi agli incontri mancati, alla ferita aritmica che lasciano – lo spillo che prima punge e poi inchioda – è solo un modo per cauterizzarla, per prepararsi a nuovi incontri da non mancare? È anche quello, sì.

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camere separate

 

Il tassista disegna con l’indice un 25 sghembo sul cofano impolverato di una mercedes dei primi duemila. Mi esce una risata complice e un po’ idiota quando gli dico che può parlare in francese. Dopotutto 25 euro è una cifra abbordabile per la tratta, ça va. Mi sono sempre stati sul cazzo i tassisti e ai tassisti sono sempre stata sul cazzo io; ci lega un astio cortese e pacifico che vira verso l’odio reciproco quando arriva il momento di pagare. No non ce li ho i contanti diocane. Ma stavolta facciamo un’eccezione, come ti chiami?, Fernando.

Gli interni di queste berline li progettavano tutti uguali, Fernando, un coordinato di romantico rigore estetico da rivista di settore: i sedili, il volante, e il bracciolo rivestiti di pelle champagne che negli anni annerisce nei punti di appoggio – il culo sprofonda, l’impugnatura sbiadisce, il gomito usura il poggiabraccio. A 16 anni volevo una macchina così, un’ammiraglia di cinque metri capace di lanciare a centosettanta all’ora la punta del cazzo che non avevo e di contenere nel suo abitacolo la sorda deflagrazione degli impulsi borghesi di provincia.

È passata una vita. A Parigi, dopo giorni di pioggia insistente, è tornata un’estate timida e sono tornata io sospinta da una folata di bora latente che più volte ha provato ad attraversarmi incontrando la resistenza del cazzo che non avevo. Diciamoci la verità: quanto tempo violentato ma pure sprecato, Fernando. Il semaforo è ancora rosso, guarda quel rivolo di piscio che scola sulla scalinata di St. Roch come luccica al sole. Siamo quasi arrivati.

Ho riletto Camere separate. Alcune pagine si sono ispessite con l’acqua filtrata dalla cerniera dello zaino asciugandosi in rigonfiamenti interni che ne deformano lo spessore.

Non si rendeva conto che la sofferenza lo stava arricchendo e che il suo sviluppo avveniva in direzione dell’interiorità. Avrebbe preferito fare l’amore, divertirsi, espandersi in circuiti emotivi e alleanze politiche e invece si trovava a lavorare, nella contrazione e nella compressione, al mistero della propria solitudine ignaro che, così facendo, si avvicinava alla vena più solida […] a un motivo per crescere senza essere immediatamente macellato”.


Mi tiro sù i jeans che due mesi fa non riuscivo ad abbottonare. Si è solidificato, all’altezza di quella che potrebbe essere la bocca dello stomaco, un grumo pulsante di tristezza. Ne sento la gravità, il peso preciso, quando mi stendo sul piumone del letto che occupa praticamente tutto lo spazio abitabile di questa stanza da 8 metri quadri. C’entriamo io e il letto, nell’incastro orizzontale e morbido di una geografia notturna in via di assestamento. Non sono mai triste, avere a che fare con la tristezza mi confina in un angolo scomodo di me in cui faccio fatica a rimanere senza scompormi. Oggi resto con un atto di forza. Il peso del grumo spinge sul poligrafo che sovrascrive la tavola dei miei comandamenti emotivi. Sii gentile. Lo sono sempre stata, fino a quando non lo sono stata più. Sii aperta. Sono cominciati i problemi.

Lo vedevo, Fernando, che mi guardavi di sottecchi dallo specchietto retrovisore, che avevi quello sguardo interrogativo di chi solo per mancanza di confidenza non chiede cos’è che ti fa male?

E io ti avrei risposto, proprio per mancanza di confidenza, che forse, più di tutto, mi fa male l’assenza della parola. Manco a dirlo, avresti capito.

Ogni volta che ordino uno chardonnay, in qualsiasi punto di Parigi io sia, proprio mentre accendo la sigaretta d’accompagno, compare un’apetta. So che sei tu a ronzarmi attorno, rompendo il cazzo in altre forme che assumi contro la tua volontà. (Quella di oggi però era una vespa, mi punge mentre lo scrivo, e mi sembra la miglior lezione possibile di linguaggio performativo).

L’ultima pagina di Camere separate è lo scarabocchio ragionato di speranza di un libro che comincia con la fine e alla fine si schiude con un soffio. Esce fuori, sempre e solo in filigrana per fortuna, quella caterva di maturità e di gentilezza e di amore che in Altri Libertini era invece repressa o forse solo nascosta dalla gioventù disperata e dalla lingua secca che le dava corpo.

“C’è una voracità, che hai con le persone che ti vivono intorno, che mi spaventa. E questo tanto più perché io so quanto, dentro di te, ci sia solamente un fondo di sincera bontà.”

Nella sintesi si dischiude, semplice quanto chiaro, il centro. E nel centro Tondelli ci affonda, annaspa, poi risale per riprendere ossigeno, con la visione di una lingua ritrovata che era forse solo nascosta dalla rabbia di essere.

Io sono questo libro. E tutte le domande che si porta appresso.

Ho amato il volto che ho offeso, o ho offeso solo il mio desiderio? Ho amato l’ultimo volto che incontrato e da cui mi sono difesa?
Pesa la parole: ogni milligrammo di inchiostro visivo è un significato che ingiustamente aggiunge o imperdonabilmente sottrae.

Sì, l’ho amato in quel modo in cui le anime impure e purissime nell’impurità si amano quando si sfiorano si riconoscono e poi cominciano a custodirsi. E se non le accogli in quella parte incorrotta di te che pulsa allora poi lo fai male, e male, e male ancora.
Nella catena cacofonica di significati irrisolti stano l’anfratto il cui si è annidato l’errore di sistema, l’inizio della cesura. Resuscito nello sbaglio, da lontano, lo custodisco e lo aggiusto. Ti custodisco con la me incorrotta, che non ti ha detto qualcosa che non sai, quella che non offende e non scappa da sé mai. Sei in questa zona franca di me che non conosci e in cui respiri senza rabbia.

Lo chardonnay è diventato brodo, il braccio viola. Era una vespa, non tu.

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il dolore di essermi non è quando affondo il coltello nel rocamadour che sarebbe il formaggio di dio se dio esistesse. Dolore è quando affondo nell’altro come se esistessi io.