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Duro intelligere, morbido sentire (il peggio che ci possa capitare?) P.C.

P.,

P. di persona compressa in parola puntata e scritta con l’inchiostro simpatico.
Chissà perché accomunano l’invisibilità a occhio nudo, la scomparsa apparente, alla simpatia. Cosa c’è di simpatico nel non vedere, non percepirsi, non conoscere più.
Ci si deve ingegnare: guardare in controluce, o cambiare strumento. Per ora la chiameremo immaginazione. Nell’ultimo paio d’anni è sempre toccato agli altri immaginarmi quando non c’ero o ero altrove (diresti: forse stavolta impari); agli altri spettava in maniera controintuitiva, per sottrazione, conoscermi.

P.: una persona accorciata, per ritrosia o pudore che sia, rischia di amputare la natura del destinatario, di sfumarne l’identità reale e ricomporla in idea postuma, fantasma. Nessuno è un’idea, tutti o quasi parliamo ai fantasmi. 
Tu coi tuoi devi averci fatto di quelle discussioni chilometriche che quando ti ci ficchi dentro è perché, a costo di scarnificarti coi rovi di spine che la nascondono, vai avanti fino a che non sbatti sul corpo nudo della verità – nessuno ti ferma – e appena la trovi la baci. Non basta, devi succhiarla. Sanguina. Un’altra verità ti aspetta, più avanti, ancora strada da fare e spine da togliere. Ti pulisci la bocca col dorso della mano. 

Venti giorni fa queste vie spaccavano una città dormiente in cui gli unici a rimanere svegli erano i bar dei cinesi, capsule del tempo estivo con il compito di preservare qualche pensionato ciondolante e i figli dei ricchi (a cui i ricchi hanno dato i nomi dei luoghi in cui stipano i soldi: Ginevra, Adelaide, Sofia) a fare colazione coi coglioni girati prima di partire per Forte dei Marmi, Margherita Ligure, Cortina (quelli di villeggiatura comunque erano peggio). Attraverso una crepa di luce abbacinante guardavo quell’entusiasmo lezioso mascherato da scoglionatura che non mi ha mai appassionato: se gratti via l’entusiasmo restano solo i coglioni scartavetrati dalla noia. 

Non sono allenata alle sparizioni. Con i miei, di fantasmi, ci ho parlato per un pezzo. Mi incazzavo come una biscia calpestata perché non rispondevano. Hai la comprensione magica, Raffaella, li capisci. No, facevo le domande sbagliate, e loro – bravi, imperturbabili, lo sguardo granitico e vacuo – mai una parola. Dopo anni di silenzio e odiose reticenze ho smesso. 


P., la tua è una piccola sparizione, si direbbe di poco conto. Non posso dirlo. Posso dire della solidità dei miei atomi, del rumore che fanno quando si scindono nello scontro con gli atomi altrui – crack – dei desideri che appena si materializzano lascio mi percorrano come scariche elettriche sottocutanee o di quando per esempio io ho deciso di staccarmi la luce perché temevo il corto, il sistema non avrebbe retto e non avevo alcuna intenzione di zompare all’aria. Tutta questa intelligenza per non capire che se il sistema lo stacchi, se non arriva più corrente, smette di funzionare. Smette di funzionare R. Sparisce R., non P. 
P. non è mai arrivata.

Su di te ho riversato solo una colata di affetto acerbo e rabbioso. Era presto per ipotizzare di restare, era tardi per incontrarsi. Un legame piccolo è una catenina sottile dalle maglie esili e luccicanti impreparate a reggere gli inciampi della giornata qualunque prima, gli strappi del tempo e le esigenze reciproche poi. Crack.

Te ne sei andata come sei arrivata, prima in sordina e poi con un boato. Io avevo abdicato molto tempo prima, poco dopo il principio, perché mi sentivo come quel Prufrock di Eliot, formulato, trafitto da uno spillo che inoculava nettare nuovo nel mio universo e avevo l’universo stanco. Non ho osato turbarlo.

P., non si parla che a sé stessi. Rivolgersi agli incontri mancati, alla ferita aritmica che lasciano – lo spillo che prima punge e poi inchioda – è solo un modo per cauterizzarla, per prepararsi a nuovi incontri da non mancare? È anche quello, sì.

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camere separate

 

Il tassista disegna con l’indice un 25 sghembo sul cofano impolverato di una mercedes dei primi duemila. Mi esce una risata complice e un po’ idiota quando gli dico che può parlare in francese. Dopotutto 25 euro è una cifra abbordabile per la tratta, ça va. Mi sono sempre stati sul cazzo i tassisti e ai tassisti sono sempre stata sul cazzo io; ci lega un astio cortese e pacifico che vira verso l’odio reciproco quando arriva il momento di pagare. No non ce li ho i contanti diocane. Ma stavolta facciamo un’eccezione, come ti chiami?, Fernando.

Gli interni di queste berline li progettavano tutti uguali, Fernando, un coordinato di romantico rigore estetico da rivista di settore: i sedili, il volante, e il bracciolo rivestiti di pelle champagne che negli anni annerisce nei punti di appoggio – il culo sprofonda, l’impugnatura sbiadisce, il gomito usura il poggiabraccio. A 16 anni volevo una macchina così, un’ammiraglia di cinque metri capace di lanciare a centosettanta all’ora la punta del cazzo che non avevo e di contenere nel suo abitacolo la sorda deflagrazione degli impulsi borghesi di provincia.

È passata una vita. A Parigi, dopo giorni di pioggia insistente, è tornata un’estate timida e sono tornata io sospinta da una folata di bora latente che più volte ha provato ad attraversarmi incontrando la resistenza del cazzo che non avevo. Diciamoci la verità: quanto tempo violentato ma pure sprecato, Fernando. Il semaforo è ancora rosso, guarda quel rivolo di piscio che scola sulla scalinata di St. Roch come luccica al sole. Siamo quasi arrivati.

Ho riletto Camere separate. Alcune pagine si sono ispessite con l’acqua filtrata dalla cerniera dello zaino asciugandosi in rigonfiamenti interni che ne deformano lo spessore.

Non si rendeva conto che la sofferenza lo stava arricchendo e che il suo sviluppo avveniva in direzione dell’interiorità. Avrebbe preferito fare l’amore, divertirsi, espandersi in circuiti emotivi e alleanze politiche e invece si trovava a lavorare, nella contrazione e nella compressione, al mistero della propria solitudine ignaro che, così facendo, si avvicinava alla vena più solida […] a un motivo per crescere senza essere immediatamente macellato”.


Mi tiro sù i jeans che due mesi fa non riuscivo ad abbottonare. Si è solidificato, all’altezza di quella che potrebbe essere la bocca dello stomaco, un grumo pulsante di tristezza. Ne sento la gravità, il peso preciso, quando mi stendo sul piumone del letto che occupa praticamente tutto lo spazio abitabile di questa stanza da 8 metri quadri. C’entriamo io e il letto, nell’incastro orizzontale e morbido di una geografia notturna in via di assestamento. Non sono mai triste, avere a che fare con la tristezza mi confina in un angolo scomodo di me in cui faccio fatica a rimanere senza scompormi. Oggi resto con un atto di forza. Il peso del grumo spinge sul poligrafo che sovrascrive la tavola dei miei comandamenti emotivi. Sii gentile. Lo sono sempre stata, fino a quando non lo sono stata più. Sii aperta. Sono cominciati i problemi.

Lo vedevo, Fernando, che mi guardavi di sottecchi dallo specchietto retrovisore, che avevi quello sguardo interrogativo di chi solo per mancanza di confidenza non chiede cos’è che ti fa male?

E io ti avrei risposto, proprio per mancanza di confidenza, che forse, più di tutto, mi fa male l’assenza della parola. Manco a dirlo, avresti capito.

Ogni volta che ordino uno chardonnay, in qualsiasi punto di Parigi io sia, proprio mentre accendo la sigaretta d’accompagno, compare un’apetta. So che sei tu a ronzarmi attorno, rompendo il cazzo in altre forme che assumi contro la tua volontà. (Quella di oggi però era una vespa, mi punge mentre lo scrivo, e mi sembra la miglior lezione possibile di linguaggio performativo).

L’ultima pagina di Camere separate è lo scarabocchio ragionato di speranza di un libro che comincia con la fine e alla fine si schiude con un soffio. Esce fuori, sempre e solo in filigrana per fortuna, quella caterva di maturità e di gentilezza e di amore che in Altri Libertini era invece repressa o forse solo nascosta dalla gioventù disperata e dalla lingua secca che le dava corpo.

“C’è una voracità, che hai con le persone che ti vivono intorno, che mi spaventa. E questo tanto più perché io so quanto, dentro di te, ci sia solamente un fondo di sincera bontà.”

Nella sintesi si dischiude, semplice quanto chiaro, il centro. E nel centro Tondelli ci affonda, annaspa, poi risale per riprendere ossigeno, con la visione di una lingua ritrovata che era forse solo nascosta dalla rabbia di essere.

Io sono questo libro. E tutte le domande che si porta appresso.

Ho amato il volto che ho offeso, o ho offeso solo il mio desiderio? Ho amato l’ultimo volto che incontrato e da cui mi sono difesa?
Pesa la parole: ogni milligrammo di inchiostro visivo è un significato che ingiustamente aggiunge o imperdonabilmente sottrae.

Sì, l’ho amato in quel modo in cui le anime impure e purissime nell’impurità si amano quando si sfiorano si riconoscono e poi cominciano a custodirsi. E se non le accogli in quella parte incorrotta di te che pulsa allora poi lo fai male, e male, e male ancora.
Nella catena cacofonica di significati irrisolti stano l’anfratto il cui si è annidato l’errore di sistema, l’inizio della cesura. Resuscito nello sbaglio, da lontano, lo custodisco e lo aggiusto. Ti custodisco con la me incorrotta, che non ti ha detto qualcosa che non sai, quella che non offende e non scappa da sé mai. Sei in questa zona franca di me che non conosci e in cui respiri senza rabbia.

Lo chardonnay è diventato brodo, il braccio viola. Era una vespa, non tu.

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il dolore di essermi non è quando affondo il coltello nel rocamadour che sarebbe il formaggio di dio se dio esistesse. Dolore è quando affondo nell’altro come se esistessi io.

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Clc #3

(o di cose scritte un oggi di mesi fa col senno di poi)

Sempre so dove sono e tocco in punti sconosciuti la fibra ferrosa dei miei confini, riconosco il fuoco che li percorre e chi prova a passarci attraverso. Spesso bruciano a lungo prima, consumando la soglia dell’incontro.

Ti cerco tardi. Stavi bruciando. Ti trovo. Riarsa.

Sei esattamente dove sono io anche se dove sono io non ci sei mai stata. Nel silenzio di una notte normanna quando le luci si spengono e la notte è un vetro screziato che rifrange gli eventi. Sei in tutto quello che non abbiamo fatto insieme, e in quello che insieme non ho fatto da sola. Nelle increspature notturne della Senna. Nello sfregio. Sei nella schiuma che affiora da una vasca di periferia. Nella sbronza gridata dall’inglese che scivola ora sul ciglio del marciapiede umido di rue tholozé. Sei nelle mie responsabilità. Nella botta di popper che evapora dopo aver scaldato le orecchie e chiavato le tempie. Leather cleaner: sei nel bavero dei miei mocassini. Sei nella sparizione presenza. Nelle Elegie duinesi di Rilke: /quante volte dal dolore sboccia un progresso beato/. Nella santità violata. Nella consistenza del tuo polso che invento da un ricordo piccolissimo. Sei nel perdono che non si dà e nella rabbia che non si risparmia. Nella lucidità senza trucchi. Nell’inganno che non mi appartiene ma ha infestato il silenzio, questa gramigna umana. Nella piccola grande rivolta delle insegne commerciali capovolte per non pagare le tasse. Nella veemenza dell’onestà. Sei in Camere separate. Sei nel disarmo, ma anche nella sommossa febbricitante delle banlieue. Nella irriducibilità a qualsivoglia forma di sottomissione. Sei nello spazio che ho difeso a sprangate. Sei contro. In un bacio rubato senza consenso. Sei bandiera piantata sulla superficie di un pianeta da colonizzare per una nuova specie. Sei il fiotto di sangue che sgorga da quella ferita. Nei sottotesti. Sei nell’azzurro obliquo del cielo di fine maggio, gli occhi tuoi. Nei morsi pretesi. Sei nella mia testardaggine una mina antiuomo calpestata di peso. Nella minaccia di un temporale che scroscia in un’altra città. In ogni esubero di immaginazione. Nello scotch per pacchi con cui una signora francese senza età ha appiccicato nel mezzo gli occhiali neri. Nei segreti sepolti nei Balcani. Sei nelle piccole rivolte di oggi che cambieranno qualcosa domani. Nel silenzio siderale e lontano di un’altra vita. Sei dove io arrivo in ritardo e dove tu non sei. Nelle parole che non vuoi. Infatti sei altrove. In altri orizzonti, tuoi solo. In quel ritornello sornione dei Pixies, sempre e soltanto mio. E non sei e ti accompagno mentre vai – ma c’è un pezzo di te che resta e si salva – nel bagno del Bataclan, con me. Un po’ sempre. Strazio.

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campo lungo cinematografico #2

A quel punto, un cameraman attento, con un guizzo di facile ispirazione godardiana, avrebbe staccato l’obiettivo dai parlanti, e si sarebbe soffermato su di me il tempo di un respiro rotto da un flashforward.

Fosse un fatto di cronaca da terza pagina, sarebbe il collasso di un edificio in pieno centro.
Crollata palazzina storica di quattro piani, probabile fuga di gas. Non si registrano vittime: al momento dell’incidente nessuno in casa. Dopo qualche ora i soccorritori avrebbero accertato che sì, nessuna vittima, ma no, il palazzo non era vuoto. Dentro qualcuno c’era, e adesso è all’angolo della strada, muto e incenerito, a studiare le macerie fumanti con un cerino in mano.

Guardo i detriti dal futuro, oggi, mentre in una rua di Montmartre raffiche dal sapore autunnale fanno svolazzare i tendoni delle bancarelle dei robivecchi.

Ho rimandato il bisogno di ricapitolarmi, di condividermi. Espletate le formalità adulte con quella certezza granitica che sempre mi rivendico ma che spesso sfocia nella presunzione di poter risolvere tutto, ho procrastinato la risoluzione dell’enigma di me con l’altro. Non ho appiccato io l’incendio con te, ma non ho mosso un dito per spegnere le fiamme silenziose che ne bruciavano la porta di ingresso, e poi l’atrio, e infine tutti e quattro i piani di quello che pareva il cantiere di un palazzo in costruzione. Il crimine peggiore è stare con le mani in mano.

Oggi una calma quasi artificiale mi invade. La paura del dolore, che prima avvertivo come il solito tic borghese da cui scappare a gambe levate, diventa una stringa straripante di informazioni che trova il suo punto di innesto sottocutaneo nell’incavo della mano destra (il reticolo di nervi proprio della carezza o del pugno). Ogni mio raro corteggiamento, ogni avvicinamento a un pianeta – forse una galassia, diversa dalla mia – si è sostanziato del vile effimero avvicendarsi di volti a cui ho concesso lo scettro temporaneo per regnare, in subordine, su una parte del mio impero immaginifico: la mia rete di metropoli inespugnata e inespugnabile.

Si disvela con una calma quasi artificiale ma spietata il segreto insito nella collisione tra poteri condivisi – non concedere lo scettro, ma regalare la visione sul regno. Ecco il pugno chiuso che torna carezza.

Sopra scorrono veloci montagne di nuvole – spazzate via dal vento francese – e a intervalli irregolari gettano un cono di luce diversa sulle cose: in quella velocità ci sei tu, porcellana e oppio. Sei negli occhi del vicino di tavolo che si sofferma sulla crosta della soupe à l’oignon. Nel pacchetto di sigarette vuoto e accartocciato in un rimprovero. Nella voce che chiama flebile dalle macerie. Sei nel moto centrifugo di uno sguardo scagliato altrove. Nella tua pelle diafana che cerca rifugio in cuori più grati. Nel passaggio di fuoco tra la realtà e il sogno. Sei in questo sangue maledetto che ti ha rigurgitato come un corpo estraneo dopo averti riconosciuto. Sei nella rinuncia dolorosa della carne che voleva incendiarti per guarirti dai lividi e lasciartene di nuovi, ma dolci, fatti di morsi e parole. Sei nella parola ritrovata. Negli occhi al cielo di un litigio non evitato. Nei paesaggi che cambiano. Nella rabbia che non ci sopravvive. Sei qui dentro ogni cosa, quando ogni cosa smette di essere cosa e diventa sé stessa.

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campo lungo cinematografico #1

La città riposa. Nel campo lungo cinematografico su una via dante deserta e buia cammino a passo deciso in alto al centro, derivando a sinistra dell’inquadratura fino a dissolvermi nella traversa di casa.

Ho aperto la porta esterna, poi il cancello – per ultimo il portoncino di legno blindato in cima a due rampette di scale – almeno 325 volte nell’ultimo anno, un’approssimazione al ribasso sufficiente a consolidare un’idea di dimora stabile da occupare e in cui evolvere a cadenza vieppiù quotidiana.

Quando ci sono entrata la prima volta non ero poi così decisa: il prezzo, la posizione del cazzo, la rapida assertività sul mio nuovo posto nel mondo le variabili sospese che roteavano in un punto interrogativo nell’angolo della cucina (che poi è anche sala, e camera da letto). Era metà settembre, l’aria cominciava a frizzare; mi acclimatavo piano.

A dicembre una pila sbilenca di libri riempiva lo spazio vuoto tra il termosifone e il davanzale. Dalle finestre incorniciate di verde e rosso del palazzo davanti due impiegati di banca avevano visto la mia moka sbruffare, ogni mattina alle 8, mentre cercavo il reggiseno lanciato la sera prima o sulla sedia o dimenticato in bagno. Gli unici due uomini ad avermi visto le tette da dieci anni a questa parte, lucky you. 

Non è la pigra inerzia a muovermi, ma un meticoloso gioco di costruzioni e conquiste: a febbraio era già quasi tutto limpido, il punto di domanda dissolto, il reggiseno sempre sulla sedia, o in bagno.
Avevo ricostruito e arredato il mio spazio vitale attraverso il dialogo serrato con uno spazio semi-sconosciuto, nuovo, nel modo che meglio mi riesce: un piano indistruttibile nei punti principali, gli imprevisti dei dettagli da sistemare in itinere.

Ma gli altri? Parrebbe esserci un buco di sceneggiatura, o meglio: il film manca di relazione tra personaggi. Di movimento. C’è l’ambientazione, c’è la trama, l’orizzonte degli eventi. C’è il protagonista. Ma dove sono gli altri? Si può fare una biografia, e se non una biografia una storia, da soli? 

È pieno di comparse, dico. Non sono mai stata da sola, in fondo. Eppure spulcio il copione e non non trovo dialoghi memorabili col personaggio principale. Malgrado le tante figure funzionali all’incidere dell’azione, di cui è pieno zeppo.

Su 325 aperture di porta, quelle in cui l’ho aperta davvero sono state 3, forse 4. La prima volta una sera di marzo. Tra i piccoli piaceri della mai sopita umana perversione, almeno per me, va menzionato quello di riunire attorno a un tavolo persone che si conoscono di sguincio o non si conoscono affatto. Sei o sette persone al massimo, numero ideale per rendere divertenti gli esperimenti sociali. 

Tu eri arrivata in ritardo con un vassoio di paste sfatte tra le mani. Avevi gli occhi viola: una bellissima auto-denuncia vivente.

Tra sei o sette persone sconosciute sedute insieme a un tavolo, devono essercene almeno due, preferibilmente alleate, prive dell’imbarazzo che impedisce di mettere nel piatto un argomento divisivo, le uniche due persone che resteranno insieme a gustarsi l’imprevedibile piega che prenderà la discussione di lì in avanti. Avevi lo sguardo obliquo tagliato di rabbia e bagnato di tenerezza che hai spesso, sempre. Dopo mezzora avevo capito che la mia alleata eri tu

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All’immagine mentale con cui attribuiamo forma e figura ai sentimenti diamo spesso una dimensione aerea che non mi sembra appartenergli. Il suo habitat non è l’aria: non è nell’aria che si riproducono le cellule sentimentali. Ci abita il corpo, sì, ma la confusione tra i due piani genera un grave errore di prospettiva.

Pensa alla sua epidermide: puoi ritracciarne lo spessore esatto (a matita, la penna falserebbe il tratto per eccesso).

Il tratto è morbido e deciso: ancora prima di interrompere la linea, l’insieme di punti tradisce la differenza rispetto a una comune epidermide (ne conosci abbastanza da poter annotare una diversità che abbia sufficiente rilevanza empirica).

Lo strato esterno della sua pelle è più sottile, come se tra derma e epidermide ci fosse un interstizio ulteriore, intermedio, che al tatto diventa un vuoto pneumatico appena percettibile. Se eserciti una leggera pressione con i polpastrelli sul suo avambraccio, la superficie riprende il colore originale con una frazione di secondo in più rispetto alla pelle di chiunque altro.

All’inizio, stringendo un po’ più forte, ti sembrava di essere sempre sul punto di romperla, allora mollavi la presa: avevi appena generato il tuo personale e grave errore di prospettiva.

Ti fossi concentrata meglio, avresti capito subito che era proprio da lì che nascevano i suoi continui lividi, le macchioline brune ed effimere in cui si addensano le tracce dei voli notturni (la chiama distrazione, un termine ingrato). Quello era lo spazio sotterraneo in cui prolificava la sua fantasia, si moltiplicavano i desideri, viveva lei.

Il sentimento ha una dimensione liquida. È il fluido caldo e vischioso che – esercitando una pressione poco più energica e mantenendo salda la presa – potevi trasfondere dalle tue dita a quello spazio intermedio: un liquido di contrasto che fa un po’ male appena entra, poi comincia a scorrere, e col calore irrora e illumina zone nascoste invisibili all’occhio umano.

Non stavi rompendo niente e nessuno – non si può rompere un fluido: stavi interrompendo la trasfusione prima che il tuo liquido – il magma di ciò che sei: parole, una buona dose di intuizione, prassi e carne viva, l’anelito a librarti qualche centimetro sopra la terra – cominciasse a scorrerle dentro.

Hai confuso la paura di romperla, di procurarle altri lividi, col panico di ustionarti tu, assecondandolo. Hai interrotto il flusso generando un’emorragia meritata perché evitabile: ti sei ritrovata in mezzo alle parole non dette o tradotte in un ringhio, la carne dolente, a piedi scalzi sulla terra senza ipotesi di voli da spiccare insieme.

Resta un fluido cruento e raggrumato che ti ricorda chi eri e non hai mostrato di essere: un essere umano capace di amare