P.

All’immagine mentale con cui attribuiamo forma e figura ai sentimenti diamo spesso una dimensione aerea che non mi sembra appartenergli. Il suo habitat non è l’aria; non è nell’aria che si riproducono le cellule sentimentali. Ci abita il corpo, sì, ma la confusione tra i due piani genera un grave errore di prospettiva.

Pensa all’epidermide di P.: puoi ritracciarne lo spessore esatto (a matita, la penna falserebbe il tratto per eccesso).

Il tratto è morbido e deciso: ancora prima di interrompere la linea, l’insieme di punti tradisce la differenza rispetto a una comune epidermide (ne conosci abbastanza da poter annotare una diversità che abbia sufficiente rilevanza empirica).

Lo strato esterno della sua pelle è più sottile, come se tra derma e epidermide ci fosse un interstizio ulteriore, intermedio, che al tatto diventa un vuoto pneumatico appena percettibile. Se eserciti una leggera pressione con i polpastrelli sul suo avambraccio, la superficie riprende il colore originale con una frazione di secondo in più rispetto alla pelle di chiunque altro.

All’inizio, stringendo un po’ più forte, ti sembrava di essere sempre sul punto di romperla, allora mollavi la presa: avevi appena generato il tuo personale e grave errore di prospettiva.

Ti fossi concentrata meglio, avresti capito subito che era proprio da lì che nascevano i suoi continui lividi, le macchioline brune ed effimere in cui si addensano le tracce dei voli notturni (la chiama distrazione, un termine ingrato). Quello era lo spazio sotterraneo in cui prolificava la sua fantasia, si moltiplicavano i desideri, viveva lei.

Il sentimento ha una dimensione liquida. È il fluido caldo e vischioso che – esercitando una pressione poco più energica e mantenendo salda la presa – potevi trasfondere dalle tue dita a quello spazio intermedio: un liquido di contrasto che fa un po’ male appena entra, poi comincia a scorrere, e col calore irrora e illumina zone nascoste invisibili all’occhio umano.

Non stavi rompendo niente e nessuno – non si può rompere un fluido: stavi interrompendo la trasfusione prima che il tuo liquido – il magma di ciò che sei: parole, una buona dose di intuizione, la carne viva, l’anelito a librarti qualche centimetro sopra la terra – cominciasse a scorrerle dentro.

Hai confuso la paura di romperla, di procurarle altri lividi, col panico di ustionarti tu, assecondandolo. Hai interrotto il flusso generando un’emorragia meritata perché evitabile: ti sei ritrovata in mezzo alle parole non dette o tradotte in un ringhio, la carne dolente, a piedi scalzi sulla terra senza ipotesi di voli da spiccare insieme.

Resta un fluido cruento e raggrumato che ti ricorda chi eri e non hai mostrato di essere: un umano capace di amare.

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