La città riposa. Nel campo lungo cinematografico su una via dante deserta e buia cammino a passo deciso in alto al centro, derivando a sinistra dell’inquadratura fino a dissolvermi nella traversa di casa.
Ho aperto la porta esterna, poi il cancello – per ultimo il portoncino di legno blindato in cima a due rampette di scale – almeno 325 volte nell’ultimo anno, un’approssimazione al ribasso sufficiente a consolidare un’idea di dimora stabile da occupare e in cui evolvere a cadenza vieppiù quotidiana.
Quando ci sono entrata la prima volta non ero poi così decisa: il prezzo, la posizione del cazzo, la rapida assertività sul mio nuovo posto nel mondo le variabili sospese che roteavano in un punto interrogativo nell’angolo della cucina (che poi è anche sala, e camera da letto). Era metà settembre, l’aria cominciava a frizzare; mi acclimatavo piano.
A dicembre una pila sbilenca di libri riempiva lo spazio vuoto tra il termosifone e il davanzale. Dalle finestre incorniciate di verde e rosso del palazzo davanti due impiegati di banca avevano visto la mia moka sbruffare, ogni mattina alle 8, mentre cercavo il reggiseno lanciato la sera prima o sulla sedia o dimenticato in bagno. Gli unici due uomini ad avermi visto le tette da dieci anni a questa parte, lucky you.
Non è la pigra inerzia a muovermi, ma un meticoloso gioco di costruzioni e conquiste: a febbraio era già quasi tutto limpido, il punto di domanda dissolto, il reggiseno sempre sulla sedia, o in bagno.
Avevo ricostruito e arredato il mio spazio vitale attraverso il dialogo serrato con uno spazio semi-sconosciuto, nuovo, nel modo che meglio mi riesce: un piano indistruttibile nei punti principali, gli imprevisti dei dettagli da sistemare in itinere.
Ma gli altri? Parrebbe esserci un buco di sceneggiatura, o meglio: il film manca di relazione tra personaggi. Di movimento. C’è l’ambientazione, c’è la trama, l’orizzonte degli eventi. C’è il protagonista. Ma dove sono gli altri? Si può fare una biografia, e se non una biografia una storia, da soli?
È pieno di comparse, dico. Non sono mai stata da sola, in fondo. Eppure spulcio il copione e non non trovo dialoghi memorabili col personaggio principale. Malgrado le tante figure funzionali all’incidere dell’azione, di cui è pieno zeppo.
Su 325 aperture di porta, quelle in cui l’ho aperta davvero sono state 3, forse 4. La prima volta una sera di marzo. Tra i piccoli piaceri della mai sopita umana perversione, almeno per me, va menzionato quello di riunire attorno a un tavolo persone che si conoscono di sguincio o non si conoscono affatto. Sei o sette persone al massimo, numero ideale per rendere divertenti gli esperimenti sociali.
Tu eri arrivata in ritardo con un vassoio di paste sfatte tra le mani. Avevi gli occhi viola: una bellissima auto-denuncia vivente.
Tra sei o sette persone sconosciute sedute insieme a un tavolo, devono essercene almeno due, preferibilmente alleate, prive dell’imbarazzo che impedisce di mettere nel piatto un argomento divisivo, le uniche due persone che resteranno insieme a gustarsi l’imprevedibile piega che prenderà la discussione di lì in avanti. Avevi lo sguardo obliquo tagliato di rabbia e bagnato di tenerezza che hai spesso, sempre. Dopo mezzora avevo capito che la mia alleata eri tu
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Sono anni che leggo e rileggo quello che scrivi, vedere qualcosa di nuovo mi ha riempito il cuore.. sono cresciuta scoprendoti e rileggendoti, hai fatto parte di ogni mio cambiamento importante.
Ogni volta riesci a scuotermi ed emozionarmi come poche cose al mondo hanno mai fatto. Non sono molto brava in queste cose, ci tenevo comunque a lasciare questo commento, per farti sapere che ho questo blog nel cuore