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Clc #3

(o di cose scritte un oggi di mesi fa col senno di poi)

Sempre so dove sono e tocco in punti sconosciuti la fibra ferrosa dei miei confini, riconosco il fuoco che li percorre e chi prova a passarci attraverso. Spesso bruciano a lungo prima, consumando la soglia dell’incontro.

Ti cerco tardi. Stavi bruciando. Ti trovo. Riarsa.

Sei esattamente dove sono io anche se dove sono io non ci sei mai stata. Nel silenzio di una notte normanna quando le luci si spengono e la notte è un vetro screziato che rifrange gli eventi. Sei in tutto quello che non abbiamo fatto insieme, e in quello che insieme non ho fatto da sola. Nelle increspature notturne della Senna. Nello sfregio. Sei nella schiuma che affiora da una vasca di periferia. Nella sbronza gridata dall’inglese che scivola ora sul ciglio del marciapiede umido di rue tholozé. Sei nelle mie responsabilità. Nella botta di popper che evapora dopo aver scaldato le orecchie e chiavato le tempie. Leather cleaner: sei nel bavero dei miei mocassini. Sei nella sparizione presenza. Nelle Elegie duinesi di Rilke: /quante volte dal dolore sboccia un progresso beato/. Nella santità violata. Nella consistenza del tuo polso che invento da un ricordo piccolissimo. Sei nel perdono che non si dà e nella rabbia che non si risparmia. Nella lucidità senza trucchi. Nell’inganno che non mi appartiene ma ha infestato il silenzio, questa gramigna umana. Nella piccola grande rivolta delle insegne commerciali capovolte per non pagare le tasse. Nella veemenza dell’onestà. Sei in Camere separate. Sei nel disarmo, ma anche nella sommossa febbricitante delle banlieue. Nella irriducibilità a qualsivoglia forma di sottomissione. Sei nello spazio che ho difeso a sprangate. Sei contro. In un bacio rubato senza consenso. Sei bandiera piantata sulla superficie di un pianeta da colonizzare per una nuova specie. Sei il fiotto di sangue che sgorga da quella ferita. Nei sottotesti. Sei nell’azzurro obliquo del cielo di fine maggio, gli occhi tuoi. Nei morsi pretesi. Sei nella mia testardaggine una mina antiuomo calpestata di peso. Nella minaccia di un temporale che scroscia in un’altra città. In ogni esubero di immaginazione. Nello scotch per pacchi con cui una signora francese senza età ha appiccicato nel mezzo gli occhiali neri. Nei segreti sepolti nei Balcani. Sei nelle piccole rivolte di oggi che cambieranno qualcosa domani. Nel silenzio siderale e lontano di un’altra vita. Sei dove io arrivo in ritardo e dove tu non sei. Nelle parole che non vuoi. Infatti sei altrove. In altri orizzonti, tuoi solo. In quel ritornello sornione dei Pixies, sempre e soltanto mio. E non sei e ti accompagno mentre vai – ma c’è un pezzo di te che resta e si salva – nel bagno del Bataclan, con me. Un po’ sempre. Strazio.

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campo lungo cinematografico #2

A quel punto, un cameraman attento, con un guizzo di facile ispirazione godardiana, avrebbe staccato l’obiettivo dai parlanti, e si sarebbe soffermato su di me il tempo di un respiro rotto da un flashforward.

Fosse un fatto di cronaca da terza pagina, sarebbe il collasso di un edificio in pieno centro.
Crollata palazzina storica di quattro piani, probabile fuga di gas. Non si registrano vittime: al momento dell’incidente nessuno in casa. Dopo qualche ora i soccorritori avrebbero accertato che sì, nessuna vittima, ma no, il palazzo non era vuoto. Dentro qualcuno c’era, e adesso è all’angolo della strada, muto e incenerito, a studiare le macerie fumanti con un cerino in mano.

Guardo i detriti dal futuro, oggi, mentre in una rua di Montmartre raffiche dal sapore autunnale fanno svolazzare i tendoni delle bancarelle dei robivecchi.

Ho rimandato il bisogno di ricapitolarmi, di condividermi. Espletate le formalità adulte con quella certezza granitica che sempre mi rivendico ma che spesso sfocia nella presunzione di poter risolvere tutto, ho procrastinato la risoluzione dell’enigma di me con l’altro. Non ho appiccato io l’incendio con te, ma non ho mosso un dito per spegnere le fiamme silenziose che ne bruciavano la porta di ingresso, e poi l’atrio, e infine tutti e quattro i piani di quello che pareva il cantiere di un palazzo in costruzione. Il crimine peggiore è stare con le mani in mano.

Oggi una calma quasi artificiale mi invade. La paura del dolore, che prima avvertivo come il solito tic borghese da cui scappare a gambe levate, diventa una stringa straripante di informazioni che trova il suo punto di innesto sottocutaneo nell’incavo della mano destra (il reticolo di nervi proprio della carezza o del pugno). Ogni mio raro corteggiamento, ogni avvicinamento a un pianeta – forse una galassia, diversa dalla mia – si è sostanziato del vile effimero avvicendarsi di volti a cui ho concesso lo scettro temporaneo per regnare, in subordine, su una parte del mio impero immaginifico: la mia rete di metropoli inespugnata e inespugnabile.

Si disvela con una calma quasi artificiale ma spietata il segreto insito nella collisione tra poteri condivisi – non concedere lo scettro, ma regalare la visione sul regno. Ecco il pugno chiuso che torna carezza.

Sopra scorrono veloci montagne di nuvole – spazzate via dal vento francese – e a intervalli irregolari gettano un cono di luce diversa sulle cose: in quella velocità ci sei tu, porcellana e oppio. Sei negli occhi del vicino di tavolo che si sofferma sulla crosta della soupe à l’oignon. Nel pacchetto di sigarette vuoto e accartocciato in un rimprovero. Nella voce che chiama flebile dalle macerie. Sei nel moto centrifugo di uno sguardo scagliato altrove. Nella tua pelle diafana che cerca rifugio in cuori più grati. Nel passaggio di fuoco tra la realtà e il sogno. Sei in questo sangue maledetto che ti ha rigurgitato come un corpo estraneo dopo averti riconosciuto. Sei nella rinuncia dolorosa della carne che voleva incendiarti per guarirti dai lividi e lasciartene di nuovi, ma dolci, fatti di morsi e parole. Sei nella parola ritrovata. Negli occhi al cielo di un litigio non evitato. Nei paesaggi che cambiano. Nella rabbia che non ci sopravvive. Sei qui dentro ogni cosa, quando ogni cosa smette di essere cosa e diventa sé stessa.

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campo lungo cinematografico #1

La città riposa. Nel campo lungo cinematografico su una via dante deserta e buia cammino a passo deciso in alto al centro, derivando a sinistra dell’inquadratura fino a dissolvermi nella traversa di casa.

Ho aperto la porta esterna, poi il cancello – per ultimo il portoncino di legno blindato in cima a due rampette di scale – almeno 325 volte nell’ultimo anno, un’approssimazione al ribasso sufficiente a consolidare un’idea di dimora stabile da occupare e in cui evolvere a cadenza vieppiù quotidiana.

Quando ci sono entrata la prima volta non ero poi così decisa: il prezzo, la posizione del cazzo, la rapida assertività sul mio nuovo posto nel mondo le variabili sospese che roteavano in un punto interrogativo nell’angolo della cucina (che poi è anche sala, e camera da letto). Era metà settembre, l’aria cominciava a frizzare; mi acclimatavo piano.

A dicembre una pila sbilenca di libri riempiva lo spazio vuoto tra il termosifone e il davanzale. Dalle finestre incorniciate di verde e rosso del palazzo davanti due impiegati di banca avevano visto la mia moka sbruffare, ogni mattina alle 8, mentre cercavo il reggiseno lanciato la sera prima o sulla sedia o dimenticato in bagno. Gli unici due uomini ad avermi visto le tette da dieci anni a questa parte, lucky you. 

Non è la pigra inerzia a muovermi, ma un meticoloso gioco di costruzioni e conquiste: a febbraio era già quasi tutto limpido, il punto di domanda dissolto, il reggiseno sempre sulla sedia, o in bagno.
Avevo ricostruito e arredato il mio spazio vitale attraverso il dialogo serrato con uno spazio semi-sconosciuto, nuovo, nel modo che meglio mi riesce: un piano indistruttibile nei punti principali, gli imprevisti dei dettagli da sistemare in itinere.

Ma gli altri? Parrebbe esserci un buco di sceneggiatura, o meglio: il film manca di relazione tra personaggi. Di movimento. C’è l’ambientazione, c’è la trama, l’orizzonte degli eventi. C’è il protagonista. Ma dove sono gli altri? Si può fare una biografia, e se non una biografia una storia, da soli? 

È pieno di comparse, dico. Non sono mai stata da sola, in fondo. Eppure spulcio il copione e non non trovo dialoghi memorabili col personaggio principale. Malgrado le tante figure funzionali all’incidere dell’azione, di cui è pieno zeppo.

Su 325 aperture di porta, quelle in cui l’ho aperta davvero sono state 3, forse 4. La prima volta una sera di marzo. Tra i piccoli piaceri della mai sopita umana perversione, almeno per me, va menzionato quello di riunire attorno a un tavolo persone che si conoscono di sguincio o non si conoscono affatto. Sei o sette persone al massimo, numero ideale per rendere divertenti gli esperimenti sociali. 

Tu eri arrivata in ritardo con un vassoio di paste sfatte tra le mani. Avevi gli occhi viola: una bellissima auto-denuncia vivente.

Tra sei o sette persone sconosciute sedute insieme a un tavolo, devono essercene almeno due, preferibilmente alleate, prive dell’imbarazzo che impedisce di mettere nel piatto un argomento divisivo, le uniche due persone che resteranno insieme a gustarsi l’imprevedibile piega che prenderà la discussione di lì in avanti. Avevi lo sguardo obliquo tagliato di rabbia e bagnato di tenerezza che hai spesso, sempre. Dopo mezzora avevo capito che la mia alleata eri tu

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All’immagine mentale con cui attribuiamo forma e figura ai sentimenti diamo spesso una dimensione aerea che non mi sembra appartenergli. Il suo habitat non è l’aria: non è nell’aria che si riproducono le cellule sentimentali. Ci abita il corpo, sì, ma la confusione tra i due piani genera un grave errore di prospettiva.

Pensa alla sua epidermide: puoi ritracciarne lo spessore esatto (a matita, la penna falserebbe il tratto per eccesso).

Il tratto è morbido e deciso: ancora prima di interrompere la linea, l’insieme di punti tradisce la differenza rispetto a una comune epidermide (ne conosci abbastanza da poter annotare una diversità che abbia sufficiente rilevanza empirica).

Lo strato esterno della sua pelle è più sottile, come se tra derma e epidermide ci fosse un interstizio ulteriore, intermedio, che al tatto diventa un vuoto pneumatico appena percettibile. Se eserciti una leggera pressione con i polpastrelli sul suo avambraccio, la superficie riprende il colore originale con una frazione di secondo in più rispetto alla pelle di chiunque altro.

All’inizio, stringendo un po’ più forte, ti sembrava di essere sempre sul punto di romperla, allora mollavi la presa: avevi appena generato il tuo personale e grave errore di prospettiva.

Ti fossi concentrata meglio, avresti capito subito che era proprio da lì che nascevano i suoi continui lividi, le macchioline brune ed effimere in cui si addensano le tracce dei voli notturni (la chiama distrazione, un termine ingrato). Quello era lo spazio sotterraneo in cui prolificava la sua fantasia, si moltiplicavano i desideri, viveva lei.

Il sentimento ha una dimensione liquida. È il fluido caldo e vischioso che – esercitando una pressione poco più energica e mantenendo salda la presa – potevi trasfondere dalle tue dita a quello spazio intermedio: un liquido di contrasto che fa un po’ male appena entra, poi comincia a scorrere, e col calore irrora e illumina zone nascoste invisibili all’occhio umano.

Non stavi rompendo niente e nessuno – non si può rompere un fluido: stavi interrompendo la trasfusione prima che il tuo liquido – il magma di ciò che sei: parole, una buona dose di intuizione, prassi e carne viva, l’anelito a librarti qualche centimetro sopra la terra – cominciasse a scorrerle dentro.

Hai confuso la paura di romperla, di procurarle altri lividi, col panico di ustionarti tu, assecondandolo. Hai interrotto il flusso generando un’emorragia meritata perché evitabile: ti sei ritrovata in mezzo alle parole non dette o tradotte in un ringhio, la carne dolente, a piedi scalzi sulla terra senza ipotesi di voli da spiccare insieme.

Resta un fluido cruento e raggrumato che ti ricorda chi eri e non hai mostrato di essere: un essere umano capace di amare

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DOVE SONO ORA

DOVE SONO ORA

Nella lingua

srotolata in un salmo

morsa e passata

sul palmo, nella paura

del colore che sfida alla corsa

in un sospiro che dura

e si incarna nel ringhio

della vecchia bestia

abbattuta rediviva

Nella lingua che lecca e sutura

l’abiura delle parole

nella recidiva di un errore

Se il toro daltonico confonde

Il sangue col cuore

attacca

muore

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cattedrale

Quando te ne sei andata da Milano, in una notte il vento aveva divelto gli alberi, gli alberi si erano abbattuti sulle auto, le lamiere delle macchine avevano ostruito le strade. Non era ancora agosto. La città si sarebbe svuotata alla spicciolata nei weekend successivi, a partire da questo.

È quasi agosto e continui a svegliarti alle 7. Col tuo bioritmo cocciuto troverai un compromesso, forse, pochi giorni prima di tornare. Hai sempre ostracizzato la te crepata di stanchezza che vorrebbe continuare a sognare fino alle 11 sogni in cui sfrecciano decappottabili verde oliva su strade che non esistono, l’hai esiliata da anni per una serie grigia di motivi che hanno tutti a che fare col senso del dovere e con un certo modo adulto di stare al mondo. Hai la FoMo del mattino.

È che però alle 7 di mattina in vacanza lontano dalla città non può e non deve accadere niente. Il sole è sorto da poco – non un grande elemento di novità – e le cicale hanno ripreso a frinire in un morbido ronzio collettivo a cui ti sei abituata. Dicono che quest’estate ce n’è più del solito. Vuoi sapere perché – figurati – così scopri dall’Agi che il numero di molti insetti, cicale comprese, aumenta in proporzione alle temperature, e che più fa caldo più forte cantano le cicale. Cantano solo i cicali maschi, in realtà, che con l’afa tendono rumorosamente i muscoli dell’addome per invitare le cicale femmine all’accoppiamento.

È una domenica mattina di mezza estate e sei circondata da insetti che vibrano dalla voglia di scopare.

Leggi qualche altra notizia correlata che finirà nel paniere degli argomenti buoni da estrarre la sera a cena davanti a persone che non ti interesseranno affatto, e a cui forse interesserai tu con la solita curiosa superficialità per quel tuo piccolo talento nel riuscire a entrare nelle cose, specularci e poi restituirle un po’ più succose di prima.

Guardi una cicala periodica a grandezza naturale in 3d: sembra l’incrocio tra una mosca e un bacarozzo.

Ci vuole uno sforzo di immaginazione subanimale per capire come una cicala periodica maschio possa essere sessualmente appetibile agli occhi rossi di una cicala periodica femmina, eppure ti sembra di capirlo. Di giorno si capisce solo ciò che non ha bisogno di essere capito.

Non c’è niente, di te e del mondo, che tu abbia davvero afferrato o edificato prima del buio.

Hai capito la fame, e il senso di tutto ciò che avresti fatto dopo, all’undicesimo giorno di sciopero dal cibo. Di giorno filava tutto liscio, di notte le tenaglie ti soffocavano lo stomaco e riaprivi gli occhi ogni mezz’ora. Potevi mangiare, le tenaglie ti stavano dicendo che dovevi, ma non avresti capito un cazzo.

La morte l’hai capita un giovedì di dicembre inoltrato. Erano le due, tuo padre aveva appena smesso di respirare.

Non c’è niente che tu abbia capito senza un atto lacerante, mai.

Il desiderio l’avevi incontrato qualche anno prima: una pietra angolare posata in un’oasi notturna dentro di te (che è sempre lì, dietro lo sterno) sulla quale hai edificato una cattedrale immensa. In quella dimora delle possibilità, della fantasia e del sovrumano hai eretto la miglior versione di te stessa e lasciato entrare solo quelli che avevi indicato come eletti. Quando ti sei sentita depredata dagli eletti hai sbarrato la porta, ti ci sei chiusa dentro seduta al buio a braccia incrociate come un guardiano bambino e burbero in un silenzioso atto di rivolta.

Lei l’hai capita di giorno solo quando se n’è andata, senza depredare e senza salutare. Un silenzioso atto di rivolta che ha mandato in frantumi l’atto originario con forza contraria, svelandone un nucleo ottuso e sordo. Pensavi di aver ascoltato e capito tutto, ti era sfuggito il centro.

L’avevi capita di notte, la prima volta, quell’unica volta in cui hai socchiuso l’ingresso della cattedrale. Erano le 4 e sugli lcd alle pareti andavano in loop porno anni ‘90 con un improbabile Luigi Einaudi remixato in sottofondo. Più che una cattedrale sembrava un sex club. Affondato nella similpelle sudicia del divanetto all’angolo un uomo-cicala si stava facendo fare un pompino, emettendo un mugolio cadenzato e triste. Nel buio livido di luci al neon voi stavate scopando da ore senza nemmeno sfiorarvi, mentre tutti altri intorno si toccavano senza riuscire a scopare.

Era un barlume di sacralità nel tempio del profano, la costruzione della complessa dicotomia del desiderio e del bene in mezzo a uomini che avevano smesso di desiderare.

Il vento non aveva divelto gli alberi, gli alberi non si erano abbattuti sulle auto, le lamiere non avevano ostruito le strade. Era solo vento, e tu la stupida che correva a casa.

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non come i polinesiani

900 e qualcosa anni fa i marinai polinesiani – che non sapevano di essere esploratori, prima ancora che navigatori – percorrevano lunghissime – e non sapevano nemmeno quanto fossero lunghissime – distanze in canoa, a volte morendo di sventura o stenti, altre spedendo per autostrada genetica ai propri discendenti i frutti casuali e esperienziali dei viaggi che avevano avuto la fortuna di raccontare.

Tu dici hai già una terra, è la tua, forse soffri per nutrirti ma in fondo ti sei adattato con la dignità atavica che si confà agli uomini dell’epoca: ai bisogni di base devono corrispondere soluzioni altrettanto basilari ed efficaci, è la piramide di Maslow su cui si basa la tua intera sopravvivenza anche se le piramidi in effetti non le hai mai viste, non sai proprio che esistano e comunque non potresti mai raggiungerle con un’imbarcazione senza motore (il motore verrà inventato 800 e qualcosa anni più tardi).

Dicevamo: sei un polinesiano, hai la tua piramide, che non è una piramide ma più un’ellissi dai contorni irregolari, forse un atollo impervio, forse una lingua di terra affacciata su uno specchio d’acqua abbacinante di giorno, di notte una distesa di pece infinita all’occhio umano cioè il tuo.

Non sai di essere un umano ma sai cosa l’umano che non sai di essere può: l’umano può sentire.

E all’umano la terra non basta, vuole il mare.

Allora, senza alcun tipo di strumentazione – strumentazione che conoscerai 900 anni dopo – tu, piccolo umano polinesiano, apprendi presto a stenderti (il corpo supino, i sensi spalancati) su una canoa costruita con mezzi di fortuna: tronchi divelti dalla burrasca e poi levigati in bonaccia dalle maree, pezzi di legno incastrati in modo che la gravità dell’acqua, quando entra, non li affondi (non conosci ancora il concetto di gravità, ma conosci l’azione della gravità sulle cose che tocchi). Vedi i punti luminosi sopra di te – forse sai già che sono stelle senza sapere di cosa sono fatte le stelle? meglio così – e senti l’incresparsi dell’acqua intorno, il suo diverso modularsi a seconda degli ostacoli che attraversa e supera. Quando ti spingono al largo impari presto a riconoscere la differenza delle increspature. Quella violenta, in mare aperto; la morbida, quando ti avvicini alla baia. Non ti serve leggerlo, lo senti e quindi lo sai: è la ricorsività della natura a marchiarti, e guardando i marchi sai cosa fare. Sempre. Alla fine tu o un tuo parente arrivate alle Fiji.

Campioni del mondo, senza ancora mondiali di calcio.

È sempre affascinante raccontare queste storielle di tribù lontane nel tempo che a un certo punto della storia per una combinazione di fato e incoscienza imparano a fare qualcosa che tu vorresti poter calare sulla tua vita forzando la metafora e pure la storia. A volte potresti sentirti un polinesiano, persino. E invece non lo sei: i tuoi confini sono regolari, spesso tracciati con una squadra, i bisogni che ti pungolano non sono mai primari, secoli e privilegi di distanza fanno di te un essere umano troppo umano che ha perso i sensi. Quando ti stendi su una barca ricordi il privilegio e guardi le stelle con un malcelato senso di colpa, intravedi la galassia materiale e pericolosa in cui sei immerso, scopri a 33 anni e qualcosa che le cicale smettono di cantare alle 21 mentre tu non smetti di rompere il cazzo mai – sei peggio dei grilli che fanno il controcanto ribelle e stonato alle 21:30 – confondi gli avvicinamenti per arrembaggi pirati e le increspature generate dagli atolli per burrasche da cui metterti in salvo. Scappi a riva, ma non è la riva giusta.

Ti sei sempre sentito un polinesiano superstite e scopri nel 2023 che sei solo una testa di cazzo che accoglie a bordo i pirati e si allontana a remi dagli atolli.

Rimettiti sulla canoa e continua a fissare le stelle con gli occhi feriti a morte fino a che non faranno più male e non sarà la morte.

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Fa’ ciò che ami. Ma anche no.

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Riflessione direi “necessaria” uscita su due Internazionali fa che disintegra il mantra del fa’ ciò che ami. Astenersi fan di Osho.

Pdf –> Il lavoro che ami è una trappola, di Miya Tokumitsu (pubblicato originariamente da Jacobin, qui)

 

“Incoraggiandoci a restare concentrati su noi stessi e sulla nostra felicità individuale, il Do what you love ci distrae dalle condizioni di lavoro degli altri e al tempo stesso conferma le nostre scelte, sollevandoci da qualsiasi responsabilità verso tutti coloro che lavorano anche senza amare quello che fanno. E’ la stretta di mano segreta dei privilegiati e una visione del mondo che maschera il suo elitarismo da nobile aspirazione a migliorare se stessi.
[…]
Se crediamo che lavorare come imprenditore nella Silicon Valley o pubblicista in un museo o come ricercatore in un istituto sia essenziale per essere persone autentiche -in pratica, per amare noi stessi- cosa crediamo delle vite interiori e delle speranze di quelli che puliscono le stanze d’albergo e riforniscono gli scaffali di un grande magazzino? La risposta è: niente.”

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La fiaba di Antonio Moresco

Dalla centotreesima pagina di Fiaba d’Amore, (Libellule Mondadori, 2014). Il colombo di Moresco poggia le sue zampette sul ballatoio della meravigliosa ragazza amata, ruota gli occhi da colombo, e parla:

“Che pena questa vita…” si diceva il colombo mentre volava molto in alto nel cielo nero che c’è tra la vita e la morte, battendo al sua ala ferita sopra la città illuminata dei vivi e poi sopra quella sterminata dei morti. “Che pena tutto questo dolore dei vivi e anche dei morti, tutte queste persone che si cercano e non si trovano, che pena tutto questo impossibile amore… Ma allora perché si cercano, se non si trovano? Ma allora perché si prendono gioco gli uni degli altri, perché si fanno del male, perché si feriscono, perché si lasciano, se poi devono continuare a cercarsi per non trovarsi? Ma allora perché certe volte si trovano, se non posso trovarsi e possono solo cercarsi?
Perché tutto questo? Solo perché sono così infinitamente soli che hanno bisogno di guardarsi almeno dentro uno specchio? Solo perché devono riprodurre altre donne e altri uomini infinitamente soli che si cercano e che non si trovano? Come sono soli gli uomini! Come sono sole le donne!”

Fine, più o meno.

Antonio Moresco Fiaba d'amore

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L’amore non ha confini, Sorrentino nemmeno

– Io oggi parto per sempre. T’ho scritto una poesia, l’ultima.
– Leggimela.
Amore, masturbami col mappamondo, voglio venire sul Marocco! Sono generoso, voglio fare del volontariato. La risolvo io l’aridità desertica del Sahara. Attento amore quanto spingi, potrei inondare il Nilo, sarebbe una strage… Ho distrutto tutti i campi coltivati. È proprio vero, l’amore non ha confini.