Digressione
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Il rumore del mare. Il silenzio della provincia, la nebbia, la bellezza della provincia.
Certe discrasie ti ammazzano sempre, non ci si abitua mai. Uno pensa di abituarsi. E pensa che ti ripensa, l’abitudine diventa meta-abitudine, che fa brutto solo a dirlo, figuriamoci a pensarlo e ripensarlo.

Io, ci sono delle cose che per quanto le penso te le elenco:

  • Perché la gente è felice?
  • Qual è per questa gente, se c’è, l’equazione vincente tra i pur numerosi ma futili motivi di felicità e la mostruosità della vita?
  • In quanti salotti giapponesi compariamo nello sfondo delle foto di viaggio? E cosa penseranno di noi, vedendoci, amici e parenti dei musi gialli in questione?
  • Come sarebbe andata se tu non te ne fossi andata?
  • Come, se io fossi rimasta?

Oggi, più del solito, risposte a vuoto tra cocci di Pandora. Mi sento come quando, come quando non hai similitudini. Mi sento senza di te.
Tornando al discorso delle abitudini, che poi pare uno lo lasci lì appeso per vagheggiare velleità letterarie, e invece sono solo una fotonica imbecille che da una vita si caga sotto di scegliere perché per tutta la vita, fuga a parte, l’opzione era apparsa unica:
ho fatto una scelta sì, che io sia viva non vuol dire fosse quella giusta.

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Quella casa. La abbatteranno prima o poi. Me lo hai promesso. Per il tempo che resterà così, disabitata e vuota, ti lascio un rimario futile e banale, corrispondenze stupide come solo i ricordi sanno essere.
Però, dicevi, c’è sempre un però. Stupide anche le congiunzioni avversative, separano prima i concetti e poi le persone. La grammatica è continua separazione, pausa, ricongiungimento, caos che sembra logica e invece è caos, un punto fermo per finire.
Non finisce niente, amore mio, le parole continuano anche quando il rumore finisce, quando tutto sembra silenzio di sottofondo ecco che si stanno formando le parole che lo romperanno. Il linguaggio è uguale alla vita, un ciclo continuo di perdite e conquiste, entrambe fittizie, punteggiature embrionali che esplodono e riempiono il mondo di silenzi e parole con cui lavoriamo, compriamo, facciamo l’amore, contrattiamo, ci insultiamo, con le parole in bocca ci moriamo. Discorso lungo.
Però, dicevamo, fin quando rimarrà in piedi, sarò io la custode della tua carcassa di cemento sulla collina, una volta piena di vita e di futuro.
In fondo, a pensarci bene, è la cosa che più ci somiglia.

Abbatteranno quella casa e il cuore
avrà il riposo immaginato sempre,
il cingolato scandirà le ore:
morte di una palazzina in novembre.
Le tapparelle cachi, le galline di tua nonna
i cactus di tua madre, tuo padre ancora
in viaggio, e quando torna.

Rifiuterai il ritorno, già diversa
lontana, in fase di abluzione
della tua Penelope dispersa
che di rimpianti farà cassa integrazione.

Si abbatterà sui cespugli di more
appassiti, la parete con le fotografie
il rovo attutirà il frastuono
a cassetti vuoti delle mie

Io, che due lustri son passati in fretta,
perdonerai, non so dimenticare
quel niente che mi teneva stretta
nell’infinito riflessivo lasciarti andare.

Tu donna, tu la prima, peccato bieco
Eva e Penelope eran la stessa troia
(Ulisse se l’è inventato un cieco);
se tesse nuove mele il boia 
Abbatteremo quella casa, amore:
sui calcinacci insieme balleremo gli anni
di chi si inganna a lungo e all’improvviso muore.

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